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Emergenza coronavirus: l’isolamento in casa e il rischio della violenza domestica

27 Marzo 2020 10 min lettura

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Emergenza coronavirus: l’isolamento in casa e il rischio della violenza domestica

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Da quando sono entrate in vigore le misure restrittive del governo per il contenimento del nuovo Coronavirus che obbligano i cittadini a stare a casa, i centralini dei centri antiviolenza hanno smesso di squillare. «La prima settimana successiva ai provvedimenti c’è stato un totale silenzio nei nostri telefoni», racconta a Valigia Blu Lella Palladino, fondatrice della Cooperativa Eva che gestisce tre case rifugio e cinque centri antiviolenza (CAV) in Campania. «Ma del resto ce lo potevamo anche immaginare: è complicato per una donna che è rinchiusa in casa con l’uomo maltrattante riuscire a chiamare per chiedere aiuto o anche solo per disdire l’appuntamento preso per un colloquio o per iniziare un percorso. Questo calo esagerato l’abbiamo registrato un po’ in tutti i centri».

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È un fenomeno che solitamente le operatrici sono abituate a vedere durante i weekend o i periodi di vacanza, quando donne e partner abusanti si trovano a stretto contatto e i momenti per telefonare o chiedere aiuto sono più difficili da trovare. Solo che in questo caso rischia di essere prolungato, e con tutte le complicazioni ulteriori di una pandemia.

Le linee sono state mute – o quasi – in tutta Italia, da nord a sud. Cristina Carelli della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate CADMI di Milano parla di un flusso di telefonate che all’inizio è «drasticamente diminuito», prima di ricominciare a ricevere qualche telefonata che però riguarda perlopiù donne che già conoscono il centro antiviolenza e le volontarie, mentre le nuove richieste d’aiuto sembrano essersi fermate.

Un trend confermato dai dati di Telefono Rosa, da cui emerge che nelle prime due settimane di marzo le chiamate di donne vittime di violenze sono diminuite del 47,7% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, mentre quelle di vittime di stalking sono crollate del 78,8%, da 33 a 7.

Lo scorso 13 marzo la procuratrice aggiunta di Milano Maria Letizia Mannella ha dichiarato all’Ansa che anche il numero delle denunce ha subito un calo: «Ci basiamo solamente sull’esperienza perché è ancora presto per avere dei dati certi, ma possiamo dire che le convivenze forzate con i compagni, mariti e con i figli, in questo periodo, scoraggiano le donne dal telefonare o recarsi personalmente dalle forze dell’ordine».

Nel frattempo le violenze continuano. Solo negli ultimi giorni e solo citando i casi più eclatanti che sono stati riportati dai media: un settantenne della provincia di Pesaro ha cercato di uccidere la moglie a martellate; a Padova una donna è stata salvata dalle botte del marito solo grazie all’arrivo dei carabinieri allertati dai vicini; a Torino un 65enne ha sparato alla moglie e al figlio prima di suicidarsi; a Roma un uomo ha ucciso la madre e a Firenze un altro ha accoltellato il cognato che aveva ospitato la compagna in fuga dai maltrattamenti.

Dopo il silenzio quasi assoluto iniziale, comunque, negli ultimi giorni qualcosa sta cambiando. Palladino racconta che, pur restando inalterato il problema delle donne di comunicare perché sotto controllo dell’abusante in una situazione di convivenza forzata, «ai nostri centri e in quelli di altri territori con cui siamo in contatto si ricomincia a mettere in moto qualche modalità di richiesta d’aiuto, anche in modalità diverse: via Whatsapp, email, oppure in maniera estemporanea approfittando di essere uscite un attimo per la spesa o per andare in farmacia, o di un momento sole a casa perché lui è andato a fare queste commissioni». Non è un ammontare paragonabile alle cifre registrate prima delle misure, ma in lieve aumento.

Gli effetti delle misure di contenimento sulla violenza domestica

Le operatrici si aspettano che nelle prossime settimane il numero delle richieste d’aiuto crescerà sensibilmente. «Lo riteniamo abbastanza inevitabile», afferma Palladino. «Anche senza la nostra trentennale esperienza è evidente che in una situazione che è già di violenza se sopraggiunge una condizione così coatta di coabitazione come quella che stiamo vivendo in tutto il paese le tensioni non possono che crescere». E allo stesso tempo viene favorito l’isolamento, che è uno dei tratti distintivi delle relazioni abusanti.

Secondo Claire Barnett, responsabile nel Regno Unito di UN Women, è provato che in tempi di incertezza economica e instabilità sociale gli abusi tra le mura di casa aumentano: «Quando le comunità subiscono ulteriori stress, i tassi di violenza crescono». È un fenomeno che si è già verificato in Cina, dove le misure di distanziamento sociale sono state messe in atto già due oltre due mesi fa. Una Ong con sede a Jingzhou, nella provincia dell’Hubei, ha rilevato che in questo periodo il numero totale dei casi di violenza domestica ha avuto un fortissimo incremento. Wan Fei, un poliziotto in pensione che ha fondato l’organizzazione, ha detto a inizio marzo al sito in lingua inglese Sixth Tone che le denunce si sono quasi duplicate dall’inizio del lockdown. «L’epidemia ha avuto un grosso impatto sulla violenza domestica. Stando alle nostre statistiche, il 90% dei casi sono collegati all’epidemia di COVID-19».

Negli Stati Uniti il National Domestic Violence Hotline afferma che nelle chiamate ricevute molte donne denunciano che il partner abusante utilizza l’epidemia come scusa per isolarle ulteriormente dai loro amici e familiari. «Sappiamo che la violenza domestica affonda le sue radici nel potere e nel controllo. In questo momento tutti percepiamo una mancanza di controllo sulle nostre vite, e un individuo che non riesce a gestire questa cosa la scaricherà sulla sua vittima», ha spiegato Katie Ray-Jones, CEO dell’organizzazione, aggiungendo che è possibile che invece chi si trovava già in una situazione di abusi viva ulteriori violenze, senza la possibilità sfuggire anche temporaneamente ad esempio andando al lavoro o vedendo i propri amici.

A queste preoccupazioni si aggiungono quelle relative all’esposizione dei bambini alla violenza assistita, considerata la condivisione prolungata degli spazi degli abusanti anche con i figli.

Ma se da un lato aumentano i rischi per via dell’isolamento forzato, dall’altro sarebbe un errore pensare che quello della violenza tra le mura di casa sia un fenomeno legato alle condizioni eccezionali in cui ci troviamo. Come precisa Antonella Veltri, presidente del network D.i.Re che raccoglie 80 centri antiviolenza in 18 regioni, non bisogna «far passare l’idea che quella della violenza domestica sia un’emergenza nell’emergenza. Non è così. La violenza è un fenomeno purtroppo normale, quotidiano e diffuso».

Il messaggio che le operatrici dei centri e le organizzazioni vogliono mandare è che i loro servizi restano attivi come sempre per le donne che ne hanno bisogno. «Noi dei centri antiviolenza ci siamo: da casa, dal nostro telefono di emergenza, anche via skype laddove possibile, dalle nostre sedi che sono temporaneamente in sospensione. Molte operatrici sono nei centri pur non facendo accoglienza nel rispetto delle regole imposte dal Governo. Chiamate se avete bisogno», ha dichiarato Veltri rivolgendosi «alle donne che in questo momento si trovano in una difficoltà maggiore perché vivono situazioni di maltrattamento da parte del partner e sono costrette a stare in casa h24».

COVID-19 e le difficoltà di centri antiviolenza e case rifugio

Con la diffusione dell’epidemia e le nuove misure di distanziamento sociale – nonché le norme sanitarie – le organizzazioni che gestiscono i CAV e le case rifugio si sono trovate a fronteggiare una situazione inedita e non facile, e spesso senza sostegno adeguato.

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I centri antiviolenza sono rimasti aperti, le operatrici rispondono per lo più al telefono o via Skype, mentre i colloqui individuali sono stati sospesi o limitati a situazioni di emergenza.

«Nei centri antiviolenza si fanno i colloqui al telefono con la postilla che, in casi di grande emergenza, si lavora in presenza, con tutti i supporti di protezione del caso. Questi casi si sono già presentati. Da quando è iniziata l’emergenza abbiamo avuto bisogno di incontrare delle donne», racconta Oria Gargano, presidente di BeFree, la cooperativa sociale che gestisce centri antiviolenza e case rifugio tra Lazio, Abruzzo e Molise. «Qualche giorno fa ci ha contattato una donna che non parla l’italiano e che vive col marito maltrattante. Era necessario incontrarla assieme alla mediatrice. Lo abbiamo fatto comunicandolo al Municipio dove si trova il centro».

Intervistata sul punto la ministra delle Pari Opportunità e della Famiglia Elena Bonetti ha affermato che è importante che i CAV rimangano aperti, riorganizzando le attività per rispettare gli standard necessari. Per fare ciò, però, servono i presidi di protezione individuale, che i centri hanno richiesto – e il ministero ha promesso. Bonetti ha anche detto che le donne che si recano nei centri antiviolenza «saranno dispensate dallo scrivere il luogo e dal dare indicazioni più precise rispetto allo stato di necessità per cui hanno lasciato l'abitazione».

Alle donne ospitate nelle case rifugio sono state date le indicazioni previste dalle norme igieniche e di distanziamento previste dal governo, ma una questione rilevante riguarda il lavoro e il ruolo delle operatrici che ci lavorano.

«Sin dall’inizio ci siamo poste il grosso problema dell’andirivieni delle operatrici su turni», spiega Palladino. In alcune case rifugio a indirizzo segreto, infatti, le donne vivono da sole, sono loro stesse a recarsi al centro antiviolenza e le operatrici vanno solo a portare spesa o beni di prima necessità o per verificare che tutto vada bene. In altre strutture, invece, è previsto un presidio costante delle operatrici. «Per questa modalità – aggiunge – ci siamo poste il problema di come non lasciare le donne da sole ma evitare che la turnazione potesse diventare fonte di contagio». In molti centri antiviolenza le operatrici si sono dotate autonomamente di guanti e mascherine, che però non sono facilmente reperibili. In alcuni casi sono state aiutate dall’Unhcr. «Viviamo questo paradosso in questo momento: siamo considerate un servizio essenziale ma non abbiamo gli stessi presidi, servizi e attenzioni dei servizi essenziali. Nel senso che nessuno ci è mai venuto a dare una mascherina, dei guanti, disinfettanti. Né tanto meno abbiamo le risorse che i servizi essenziali dovrebbero avere», afferma Palladino.

C’è poi il problema della conciliazione delle norme governative con i nuovi ingressi nelle case rifugio, dove le donne condividono spazi che non sempre consentono di mantenere le distanze. Per evitare rischi di contagio e venire incontro alle preoccupazioni delle donne accolte, le operatrici si sono spinte a cercare di individuare soluzioni di ospitalità temporanea di 15 giorni per le donne che devono fare ingresso nelle case rifugio.

Sollecitate dalle associazioni, le ministre Bonetti e Lamorgese hanno stabilito una linea comune, e il Viminale ha emanato una circolare diretta ai prefetti chiedendo loro di verificare ciascuno nella propria provincia se sussistono queste difficoltà ed eventualmente coinvolgere gli enti locali nella ricerca di altri alloggi.

https://twitter.com/Viminale/status/1242472001643536385?s=20

Nel frattempo i centri si organizzano. «Al momento noi alla cooperativa Eva abbiamo un altro posto in casa, e alla prossima richiesta di accoglienza ci regoleremo di conseguenza. Non possiamo lasciare nessuna donna in emergenza. Proviamo a conciliare la tutela sanitaria con la tutela della vita», dice Palladino.

Le organizzazioni del network D.i.Re hanno presentato delle richieste al governo al parlamento e alla conferenza Stato-Regioni. Tra queste, una maggiore protezione per le donne che chiedono aiuto. Il punto principale è «come facciamo uscire le donne da casa. Serve un raccordo tra sistema antiviolenza, di accoglienza e forze dell’ordine», spiega Palladino. Alle operatrici preme che «le leggi vigenti vengano rispettate, e dunque che si dia corso a quanto disposto dalla normativa in termini di allontanamento dell’uomo maltrattante. Bisogna che vengano emessi gli ordini di protezione sia in sede civile che in sede penale, perché non vediamo perché in questo momento sia la donna a doversi allontanare con i bambini dal domicilio anche in emergenza sanitaria e non debba essere invece allontanato l’uomo che esercita la violenza. La legge lo prevede, la legge è disattesa. Stiamo chiedendo in questo momento che venga applicata, è una delle richieste prioritarie». E poi ci sono aiuti economici per le donne supportate dai centri antiviolenza che stanno perdendo il lavoro, e tutela per le donne richiedenti asilo, rifugiate o vittime di tratta, che vivono un’ulteriore vulnerabilità.

Valeria Valente, presidente della Commissione femminicidio del Senato, si è fatta portavoce delle istanze dei centri antiviolenza, e ha precisato al Corriere della Sera che porterà alcune richieste mirate agli emendamenti del decreto Cura Italia: «Tre in particolare. La prima: sono indispensabili risorse economiche aggiuntive. La seconda: ci serve che gli operatori antiviolenza abbiano non soltanto i presidi sanitari necessari, come guanti e mascherine, ma anche personale sanitario accanto per seguire in modo corretto le procedure e gli eventuali isolamenti. La terza: lavoriamo per modifiche in tema di giustizia: per esempio per sospendere in questa fase le visite protette ai figli per i genitori maltrattanti o per dare una stretta anche ai diritti di visita in caso di separazione».

La presidente di D.i.Re Veltri spera di ricevere maggiore concretezza dalle istituzioni in futuro, perché «il fenomeno della violenza richiede attenzione. Il governo non deve dimenticare che le direttive previste nel Dpcm, a mio avviso necessarie, espongono le donne che già vivono relazioni con violenti al rischio che i maltrattamenti si facciano più frequenti e più gravi».

Risorse utili per chi ha bisogno di aiuto

https://twitter.com/Chayn_Italia/status/1243232233974116352?s=20

Il numero 1522, promosso dalla presidenza del Consiglio dei ministri, è attivo 24 ore su 24. La chiamata è gratuita anche da cellulare, e il servizio è multilingue. Se non si vuole (o non si può) telefonare, c’è anche la possibilità di chattare con le operatrici. Esiste anche un’app per il cellulare.

Sul sito di D.i.Re c’è una lista dei centri sul territorio divisi per regione (o per città) e i servizi rimasti attivi anche in questo momento (orari di reperibilità, colloqui telefonici, via Skype ecc).

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Altre organizzazioni e spazi femministi hanno attivato canali via chat per mettersi in contatto con un’operatrice e chiedere aiuto. A Roma lo ha fatto, ad esempio, la casa delle donne Lucha Y Siesta.

Altri numeri utili:
Carabinieri 112
Polizia 113

Foto anteprima via Mediatoreinterculturale

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