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Fase 2 e ondate di ritorno: “Prepariamoci a convivere con il virus per diverso tempo”

5 Maggio 2020 14 min lettura

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Fase 2 e ondate di ritorno: “Prepariamoci a convivere con il virus per diverso tempo”

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È iniziata ieri in Italia la cosiddetta “fase 2”. Sono riprese gradualmente alcune attività (qui le misure nel dettaglio) che erano state sospese da quando era stato attivato il lockdown in tutto il paese, sono state allentate alcune misure di distanziamento sociale che in questi due mesi hanno ridotto le libertà di spostamento e di interazione sociale per limitare la trasmissione del virus, salvaguardare la popolazione dal rischio di contagio e cercare di evitare che le strutture ospedaliere finissero sotto pressione.

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Molto si sta discutendo sull’efficacia, la tempestività e le modalità di queste prime riaperture che si muovono sul crinale sottile tra cura della salute pubblica, dell’economia del paese e del nostro benessere psico-emotivo. Come scrivevamo in questo pezzo, ci stiamo addentrando in un territorio inesplorato. Se, infatti, l’efficacia dell’isolamento e del distanziamento sociale è scientificamente dimostrata, non sappiamo quali saranno nell’immediato e a lungo termine gli effetti di queste nuove misure più permissive. Né quanto saranno durature queste nuove riaperture. Almeno fino a quando non avremo conosciuto meglio questo nuovo coronavirus e non saranno stati trovati trattamenti in grado di debellarlo.

Sono, queste, riflessioni che stanno riguardando praticamente tutti i paesi alle prese con SARS-CoV-2 che stanno cercando di trovare la strada meno pericolosa per garantire al tempo stesso ripresa delle attività e salute pubblica. In Francia si è parlato di iniziare ad allentare gradualmente le misure restrittive a partire dall’11 maggio, ma è ancora in discussione quando riaprire le scuole, in Spagna probabilmente dopo la metà di maggio, nel Regno Unito non ci sono ancora date ufficiali sulla ripresa di scuole e attività commerciali, dopo l’annuncio del blocco dei movimenti del 24 marzo scorso, in Germania ci sono state alcune riaperture dallo scorso 20 aprile ma la cancelliera Angela Merkel ha ribadito più volte che la pandemia è ancora all’inizio e ha posticipato la riapertura di scuole e asili nei 16 Stati del paese al 6 maggio. Anche alcuni Stati del sud e del midwest degli USA, per lo più a guida repubblicana, stanno pensando all’allentamento delle restrizioni suscitando la reazione di diversi esperti in malattie infettive che hanno commentato come sia ancora presto per pensare a iniziative del genere.

Aleggia sullo sfondo il timore che le riaperture premature possano portare a nuove ondate di contagi senza essere ancora preparati a gestirle. 

Innanzitutto per le esperienze passate di grandi epidemie di malattie infettive. Le pandemie sono causate da nuovi agenti patogeni contro i quali la stragrande maggioranza degli umani non ha alcuna protezione immunitaria. Spesso, ad esempio con le influenze, una nuova variante del virus si diffonde in tutto il mondo per poi affievolirsi e tornare alcuni mesi dopo, non necessariamente dappertutto. L’influenza del 1918 è considerata un esempio chiave: ha fatto oltre 50 milioni di vittime e si è verificata in più ondate, l’ultima più grave della prima. Altre pandemie influenzali, tra cui una nel 1957 e un’altra nel 1968, hanno avuto almeno due ondate. L’influenza H1N1 del 2009 iniziò ad aprile ed ebbe, negli Stati Uniti e nell’emisfero settentrionale temperato, una seconda ondata in autunno. 

La minaccia diminuisce quando la suscettibilità della popolazione alla malattia scende al di sotto di una determinata soglia o quando diventa disponibile una vaccinazione diffusa. In questo momento, la preoccupazione è legata all’assenza di un vaccino, i cui tempi di sviluppo e realizzazione sono ancora ignoti, alle informazioni ancora lacunose sulla contagiosità del virus e, dunque, a quante fasce della popolazione mondiale sono ancora vulnerabili.

Come ha scritto Justin Lessler, professore associato di epidemiologia alla Johns Hopkins University sul Washington Post, “le epidemie sono come gli incendi. Quando c’è molto carburante, si scatenano in maniera incontrollata, quando è scarso, bruciano lentamente. Il carburante è la suscettibilità della popolazione all’agente patogeno. Le ondate ripetute la riducono abbassando così il rischio che le persone ancora non immuni contraggano la malattia”. Il problema, spiega Peter Beaumont sul Guardian, è che non sappiamo quanto carburante abbia tuttora a disposizione il virus. 

Altro elemento di indeterminatezza è che tipo di immunità il sistema immunitario sviluppa nei confronti della malattia per poter prefigurare quanto la popolazione mondiale sia protetta in vista di ondate future, commenta Max Nisen, editorialista di Bloomberg su salute, scienza e tecnologia. La durata e la forza dell’immunità sviluppata variano a seconda delle malattie, dell'intensità dell'infezione in ciascuna delle persone che ha contratto il virus e da altri fattori. Per poter conoscere l’immunità acquisita contro COVID-19 saranno necessari mesi di studi sugli individui che in questi mesi di pandemia hanno sviluppato gli anticorpi. E non aiuta il precedente di SARS, che condivide circa il 79% della sequenza genetica di SARS-CoV-2. L’epidemia si estinse prima che i ricercatori avessero la possibilità di osservare se ci fossero casi di reinfezione.

La scorsa settimana Nature Medicine ha pubblicato uno studio di un gruppo di ricerca cinese su 285 pazienti affetti da COVID-19. Secondo le analisi dei dati raccolti, entro 19 giorni dall’esordio dei sintomi, il 100% delle persone entrate in contatto con il nuovo coronavirus ha sviluppato sia gli anticorpi IgM, che indicano la primissima risposta al virus, sia quelli IgG, che costituiscono la "memoria" del nostro corpo all'infezione. Ora restano da capire altri due aspetti molto importanti: se e per quanto tempo gli anticorpi che sviluppiamo sono anche “neutralizzanti”. In questo caso gli anticorpi farebbero da scudo di fronte a un nuovo incontro con il virus. 

A tutto questo si aggiunge un ulteriore fattore di confusione e cioè la possibilità che in autunno ci si possa trovare di fronte simultaneamente a una seconda ondata di COVID-19 e all’influenza. Il dottor Anthony Fauci, direttore dell'Istituto nazionale di allergie e malattie infettive (NIAID) e consulente dell’amministrazione Trump nella gestione della pandemia, si è detto “quasi certo che il virus tornerà” a causa della sua facilità di trasmissione e della sua diffusione a livello globale e, riferito agli USA, “per gli americani potrebbero prospettarsi un autunno e un inverno difficili”. 

Per questo motivo il direttore dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, Robert Redfield, ha auspicato che gli USA proseguano le misure di distanziamento sociale, aumentino in maniera massiccia i test e la tracciabilità dei contatti delle persone infette in modo tale da identificare e isolare nuovi casi COVID-19 prima che si generino focolai più grossi e che il più alto numero di cittadini possibile si sottoponga alla vaccinazione anti-influenzale in autunno.

E proprio le conseguenze delle riaperture e della mitigazione delle misure non farmacologiche di soppressione del virus costituiscono un altro elemento di indeterminatezza che contribuisce a rendere poco nitida la percezione del rischio cui la popolazione va incontro. Il rischio è quello di pensare che il peggio sia alle spalle prima ancora che la situazione critica sia stata effettivamente superata.

Ammorbidire le misure quando i contagi sono in discesa però non così tanto da giustificare un’uscita dal lockdown potrebbe portare alla paradossale situazione di sottovalutare le conseguenze del mancato distanziamento sociale e dimenticare di assumere le dovute precauzioni (evitare gli assembramenti in luoghi pubblici, mantenere almeno 1 metro di distanza gli uni gli altri, non avere contatti fisici diretti), creando così poi le condizioni per un aumento imprevisto dei contagi, spiega al Guardian Andy Slavitt, ex funzionario sanitario sotto l’amministrazione Obama.

Secondo uno studio sulle strategie di contenimento di COVID-19 in Cina, pubblicato il mese scorso su Lancet, in base alle caratteristiche della trasmissione del virus, l’allentamento delle misure restrittive porterebbe all’innesco di un nuovo aumento esponenziale delle infezioni, che può essere contrastato solamente attraverso la reintroduzione delle medesime misure restrittive. Gli studi di scenario – scrivono Simona Re e Angelo Facchini su Scienza in Rete, commentando la ricerca – “dimostrano dunque che, per quanto le nuove norme di contenimento possano risultare drastiche, i tempi per il ritorno alla normalità restano dettati dalle dinamiche dell’epidemia stessa”.

Questo non vuol dire che i paesi siano completamente impotenti, commenta a tal riguardo Max Nisen su Bloomberg. Quei paesi che accompagneranno le riaperture con programmi organizzati di test e tracciabilità dei contatti saranno più facilmente in grado di rilevare eventuali focolai e impedire che l’epidemia divampi incontrollata.

“Eliminare le restrizioni troppo rapidamente potrebbe portare a un rinfocolare letale della pandemia", aveva ammonito lo scorso 10 aprile il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) Tedros Adhanom Ghebreyesus. Un timore condiviso anche dal premier britannico Boris Johnson – che ha recentemente affermato che se il Regno Unito alleggerisse le restrizioni troppo rapidamente rischierebbe di "gettare alle ortiche gli sforzi e i sacrifici fatti finora” – e, rispetto agli Stati Uniti, da Yanis Ben Amor, direttore esecutivo del Centro per lo Sviluppo Sostenibile all’Earth Institute della Columbia University, che ha dichiarato al Guardian di non ritenere gli USA pronti: “Ci sono 50 Stati con livelli diversi di diffusione dell’epidemia. Non stiamo facendo un numero sufficiente di tamponi e quindi lo stato di sviluppo del contagio potrebbe essere sottostimato. Non disponiamo di un sistema di test e quindi sono profondamente preoccupato che con le riaperture possano esserci nuovi focolai”. Secondo una prima bozza di uno studio condotto dal MIT, “allentare ora le misure di distanziamento sociale e di lockdown potrebbe portare a un'esplosione esponenziale del numero di casi di persone infette, annullando così tutti gli sforzi fatti dagli Stati Uniti dalla metà di marzo fino ad ora”.

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L’esperienza dei paesi asiatici – che per primi si sono trovati a dover fronteggiare la diffusione del nuovo coronavirus – ci dice che non ci si può permettere di abbassare la guardia fino a quando si dovrà convivere con SARS-CoV-2. Stati che sembravano aver messo sotto controllo la gestione dell’epidemia si sono trovati all’improvviso alle prese con focolai più o meno estesi e pericolosi a causa di casi importati per il rientro di connazionali dall’estero (Hong Kong e Taiwan), nuovi hub di contagio (Corea del Sud e Singapore), nuove aree colpite (Giappone e Cina). Alcuni paesi hanno risposto proseguendo con le politiche di test, tracciamento dei contatti e isolamenti dei casi positivi (Corea del Sud), altri chiudendo parzialmente le regioni colpite (Cina), altri chiudendo totalmente e dichiarando lo stato d’emergenza (Giappone).

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Tutte queste esperienze ci invitano a prendere coscienza che bisogna accettare di dover convivere a lungo col nuovo coronavirus e capire che la pandemia è un problema di tutti e va affrontata a livello globale al di là dei particolarismi nazionali, visto che il primo a uscirne dovrà aspettare che anche tutti gli altri siano fuori.

Storie di seconda ondata dall’Asia

Mentre gli altri continenti sono impegnati con tempi disomogenei a cercare di limitare l’impatto del nuovo coronavirus, in Asia diversi paesi sono alle prese con ondate di ritorno.

La Cina ha annunciato nuove misure per evitare una seconda ondata di infezioni da COVID-19 mentre sta facendo ripartire gradualmente la sua economia e sta mitigando il lockdown e le misure di distanziamento sociale. I nuovi regolamenti, in vigore dall’1 giugno, prevedono l'obbligo per i residenti di coprirsi la bocca e il naso quando tossiscono o starnutiscono, di non mangiare sui mezzi pubblici e indossare una mascherina in pubblico se hanno qualche malattia. I ristoranti dovranno fornire porzioni separate scoraggiando così i tradizionali pasti condivisi in stile familiare, quando possibile. Il 27 aprile sono state riaperte le scuole superiori di Pechino e Shanghai: gli studenti e i docenti dovranno indossare mascherine, la dimensione delle classi è stata ridotta, gli orari delle mense scolastiche sfalsati in modo tale da evitare assembramenti. Ma questo non significa che il virus sia stato completamente debellato. L’attenzione resta vigile. Proprio nei giorni in cui si annunciavano i zero contagi a Wuhan, primo epicentro della pandemia, sono stati registrati nuovi casi nel nord del paese, intorno alla città di Harbin, nei pressi del confine russo. L’originarsi di un nuovo focolaio ha costretto le autorità a imporre nuovi blocchi.

Anche Hong Kong ha dovuto inasprire le misure di contenimento. Dopo una generale diminuzione dei casi di positività al nuovo coronavirus, da marzo ci sono stati nuovi contagi, in gran parte attribuiti alle persone che tornavano da quelle aree dove il virus stava iniziando a diffondersi con grande rapidità, come il Regno Unito, l'Europa e gli Stati Uniti.

Ciò ha creato tensioni sul territorio. I residenti hanno accusato il ritorno dei propri connazionali di rinfocolare la pandemia. In risposta all’aumento dei casi, il governo ha deciso di vietare l’ingresso dei non residenti nel paese, consentendo eccezioni ai passeggeri provenienti dalla Cina continentale, da Macao e da Taiwan, purché non avessero viaggiato da nessun'altra parte altro nei 14 giorni precedenti, ha imposto l’utilizzo di braccialetti collegati a un’app in modo tale che le persone autorizzate ad atterrare possano essere tracciate e localizzate nel tentativo di provare a controllare eventuali nuovi casi di contagio prima che si trasformino in grossi focolai. Inoltre, all’arrivo in aeroporto, chi torna a Hong Kong, è tenuto a fare il test della saliva per testare un’eventuale positività al nuovo coronavirus.

Sono stati individuati anche casi circoscritti di contagio locale, come a Lan Kwai Fong, un quartiere con molti bar noti per la sua vita notturna. Le autorità hanno deciso di chiudere le scuole, sale giochi, palestre, saloni di bellezza e di massaggi, cinema, teatri, bar e pub, di vietare incontri tra 4 o più persone, limitare il numero dei posti nei ristoranti.

Taiwan, descritto come uno dei casi più virtuosi di contrasto di SARS-CoV-2, ha visto un incremento improvviso dei contagi, attribuiti a persone arrivate dall’estero (al 14 aprile 388 casi su 400). Il 19 marzo le autorità hanno vietato a tutti i cittadini stranieri (con alcune eccezioni, anche per i diplomatici) di entrare nell'isola, ai viaggiatori di transitare attraverso Taiwan, hanno invitato i taiwanesi a evitare di viaggiare fuori dall'isola e rischiare di tornare contagiati e hanno richiesto a chi rientrava di mettersi in quarantena per 14 giorni. “Speriamo che il peggio sia passato, ma dobbiamo ancora stare in guardia”, ha dichiarato il ministro della salute Chen Shih-chung in una conferenza stampa.

Anche Singapore ha visto un aumento improvviso dei contagi, in parte legati a casi importati, in parte a causa dell’infezione dei lavoratori immigrati, costretti a dormire in affollati dormitori. È da tempo che questa categoria lotta per la mancanza di cure mediche. Secondo un ente di beneficenza, che fornisce assistenza sanitaria agevolata ai lavoratori, è questa una delle cause che potrebbe aver portato al propagarsi dell’epidemia tra gli immigrati.

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Dopo aver inizialmente evitato chiusure di massa, anche in questo caso le autorità hanno imposto chiusure, istituendo quello è stato definito un “circuito di sicurezza": le persone possono uscire solo per i servizi essenziali, andare dal medico, fare esercizio fisico da soli e a distanza di sicurezza. I ristoranti possono rimanere aperti solo per asporto o servizio a domicilio. Sono state chiuse anche le scuole. 

Il Giappone, infine, è stato toccato da una seconda ondata epidemica. Alla fine di febbraio, la regione di Hokkaido ha dovuto dichiarare lo stato d’emergenza a causa di COVID-19. Ieri, il primo ministro Shinzo Abe ha dovute prorogare questa misura fino al 31 maggio per tutta l’isola. 

A differenza della prima ondata e di quanto avvenuto in queste settimane negli altri paesi asiatici, non ci sono prove che il virus sia stato reimportato da persone provenienti dal di fuori del Giappone. Nessuno dei nuovi casi è straniero né ha viaggiato fuori dal Giappone nell'ultimo mese, riporta BBC.

Sono state chiuse le scuole, vietati i grandi eventi, incoraggiate le persone a rimanere a casa. Gli interventi, tuttavia, sembrano essere stati tardivi perché Hokkaido ha agito indipendentemente dal governo centrale mettendo in difficoltà le aree di Tokyo, Osaka e di altre cinque prefetture. 

I casi di Hokkaido danno tre lezioni, spiega sempre a BBC il professor Kenji Shibuya del King's College di Londra. Innanzitutto, comparando la celerità mostrata nella prima ondata e la lentezza nella seconda, “se intervieni per tempo, facendo i test, tracciando e isolando, tieni tutto sotto controllo”. In secondo luogo, se non tamponi subito, “sprechi risorse, non sei efficace, le strutture ospedaliere vanno in affanno e resti in balia del virus perché non riesci a capire come si sta diffondendo l’epidemia”. Infine, la terza lezione è che “con il nuovo coronavirus bisognerà convivere molto più di quanto ci si potesse aspettare”.

Cosa possiamo imparare dalla "seconda ondata" di casi di coronavirus in Asia

La lezione chiave che ci arriva dall’Asia, spiega il professore Shibuya, è che “anche se si ha successo nel contenimento a livello locale, fino a quando c'è una trasmissione in corso in altre parti del paese, o in altri continenti, fintanto che le persone si spostano, è difficile mantenere i contagi a zero”.

In altre parole, finché il coronavirus si sta diffondendo da qualche parte, può diffondersi ovunque.“Non ci libereremo della malattia fino a quando tutti i paesi non avranno un sistema per rilevarla e circoscriverla lì dove si originano nuovi piccoli focolai”, spiega Olga Jonas, senior fellow dell’Harvard Global Health Institute, che in passato ha contribuito a coordinare la risposta della Banca mondiale alle minacce portate dall’influenza aviaria.

In un'economia globale con un'enorme quantità di viaggi internazionali, il rischio di riemergere del virus in un determinato paese rimarrà elevato, soprattutto quando si tornerà a viaggiare. Per questo motivo, scrive Umair Urfair su Vox, la fine della pandemia richiede un coordinamento internazionale. Nessun paese potrà ritenersi fuori pericolo finché non lo saranno tutti. 

“La sicurezza sanitaria globale significa investire continuamente non solo nella preparazione / risposta alla pandemia del nostro singolo Stato, ma anche in quella degli altri paesi”, commenta sempre a Vox Saskia Popescu, epidemiologa alla George Mason University. “È importante sostenere i paesi che lottano per il contenimento e investire continuamente negli sforzi globali per la sicurezza sanitaria”.

A livello nazionale, i paesi dovranno ancora appoggiarsi al distanziamento sociale, ai test diffusi e alla buona igiene per limitare la diffusione del virus. Dovranno fare test più rigorosi su chi viaggia e si sposta tra continenti. A livello internazionale diventa fondamentale il ruolo di organizzazioni come l’OMS che dovranno aiutare i singoli Stati in sforzi congiunti, che diventano fondamentali nelle aree con minori risorse sanitarie, scrive ancora Urfair. “La lotta contro la pandemia di COVID-19 sarà lunga e costosa, ci sono ancora incognite su quale strategia sarà più efficace per debellare il virus. Ma è difficile concepire un percorso che non coinvolga congiuntamente tutti i paesi”.

Allo stato attuale, dovremo convivere con un continuo alternarsi di momenti di  "restringimento e allentamento", “chiusura” e “apertura”, commenta sul New York Times Gabriel Leung, esperto di malattie infettive e decano di Medicina all'Università di Hong Kong. “Per tutto il prossimo anno, prepariamoci a diversi cicli del genere, durante i quali le misure vengono inasprite e ammorbidite in modo da mantenere la pandemia sotto controllo a un costo economico e sociale accettabile”.

Hong Kong, Singapore e Taiwan stanno essenzialmente seguendo questo percorso: fanno i test in modo mirato, tracciano i contatti, limitano i viaggi all’estero e gli ingressi nei propri paesi, ripropongono misure di distanziamento sociale, “qualcosa di simile a un freno da applicare quando le infezioni iniziano a salire, sul quale tirare poi su il piede quando i casi tornano sotto controllo”. Una strategia dinamica che richiede aggiustamenti costanti, adattamento, flessibilità.

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Pur godendo di vantaggi che altri Stati non hanno (sono relativamente piccoli, sono isole, sono poco popolati, sono ricchi, hanno strutture mediche all’avanguardia), questi tre paesi hanno saputo anche imparare dalle epidemie passate, come SARS e MERS. E anche questa è una lezione che tutti dovremo apprendere per il futuro, commenta Ben Cowling, professore alla Scuola di Salute Pubblica dell'Università di Hong Kong. “La popolazione era già preparata e sapeva come avrebbe dovuto modificare i propri comportamenti per attuare le politiche di distanziamento sociale adottate dal governo".

In conclusione, se dobbiamo prendere uno spunto dall’esperienza di chi ci sta precedendo, scrivono Simona Re e Angelo Facchini su Scienza in Rete, l’insegnamento da trarre è che prevenire è meglio che curare e non cadere nell’errore di allentare prima del dovuto o ritardare la reintroduzione delle nuove misure di restrizione: “Il tempo richiesto per tornare alla normalità potrebbe dilatarsi significativamente, arrivando a durare fino al doppio del tempo necessario a raggiungere il picco dei contagi”. E le conseguenze potrebbero essere più dure di quanto preventivato.

Immagine in anteprima via pixabay.com

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